Perchè Ordine e Progresso?

Il Blog prende il nome dal motto inscritto sulla bandiera del Brasile e mutuato da un'aforisma di Auguste Comte.
Questi, uno dei padri della Sociologia, era una convinto positivista, il che nel 1896 lo rendeva anche un progressista.
L'importante è , come infatti Comte mette al primo punto, che l'Amore sia sempre il principio cardine dell'Agire.


L'Amore per principio e l'Ordine per fondamento;il Progresso per fine

Auguste Comte ,1896

giovedì 25 gennaio 2018

Senta, dica, scusi....


Qual è il termine più corretto per definire chi è altro da noi, chi è straniero per nazionalità, etnia, religione e cultura, in tempi di “politicamente corretto”?
La definizione di straniero alla quale mi riferisco, non include i popoli dell'Europa occidentale, poiché da decenni non pongono sfide alla società italiana, ma solo quelli dell'area extra-europea, che progressivamente hanno permeato la società italiana.
Sul tema di come trattare l'alterità rispetto alle persone appartenenti ad altre etnie, culture e religioni, forse non tutti siamo consci di quanto le nostre coscienze in questi decenni siano state influenzate dai “maestri del discorso”, per dirla con un'espressione molto in voga.
I termini che utilizziamo per definire oggetti e concetti astratti, influenzano essi stessi il nostro modo di pensare, in una sorta di retroazione che può essere negativa o positiva. Questa diviene positiva se permette , conoscendo più termini, di articolare un pensiero complesso e definire in maniera più precisa l'oggetto di una discussione o di una dimostrazione. Diviene invece negativa quando la ripetizione continua di determinati termini, modi di dire, stereotipi e slogan, impedisce la ricerca della sfumatura e prende il posto di intere categorie di pensiero,scalzando le altre e relegandole nell'oblio.
Parlando di immigrazione, e soprattutto di immigrati, è sorto il problema di come definire lessicalmente, univocamente, tutti i “tipi di straniero” presenti in Italia.
Ciò è avvenuto attraverso una articolata, ma continua, riscrittura dei codici lessicali, semantici e, di riflesso, sociali. I media sono stati il principale veicolo di questo cambiamento, e la popolazione ha assunto a volte il ruolo di precursore ed altre quello di assimilatore passivo.
Facciamo una brevissima cronistoria dei termini utilizzati in questi ultimi 50 anni.
Negli anni 60 l'immigrazione era l'ultima delle preoccupazioni dell'Italia del boom. Gli stranieri erano pochi e concentrati in piccole comunità coese, come nel caso di etiopi e somali a Roma o tunisini in Sicilia. Non esisteva un termine comune per indicarli se non appunto “straniero”. Diversamente, venivano indicati per nazionalità.
Negli anni 70, poi, l'epiteto con cui venivano tacciati gli stranieri, non europei, divenne “marocchino”. In quel periodo l'immigrazione straniera era un fenomeno molto controllato. La comunità più ampia era quella nordafricana, maghrebina in particolare, ma nelle città la sua visibilità era limitata. La distribuzione era concentrata particolarmente nei grandi centri del nord, nella capitale e al sud. L'immagine più rappresentata al tempo era quella del venditore di tappeti e carabattole, ai mercati o in strada, ai semafori.
Negli anni 80 l'immigrazione nordafricana aumenta costantemente, e gradualmente vi si aggiunge quella subsahariana, specialmente al sud, attirata e sfruttata dal lavoro agricolo.
Il nome che viene dato agli stranieri diviene “vuccumprà” , tormentone ripetuto all'eccesso e ispirato ai venditori ambulanti, senegalesi o marocchini, sulle spiagge italiane.
Negli anni 90 è l'ora dell'immigrazione dall'est Europa, Albania ed ex Jugoslavia in primis, ma anche Russia e Polonia. Abbiamo ancora negli occhi le navi cariche dei profughi in arrivo dalla costa albanese, e i profughi bosniaci in fuga, e la loro successiva redistribuzione nelle città italiane. Il termine usato per indicare uno straniero diviene ora “extra-comunitario”. L'ingresso dell'Italia nell'Europa ha imposto una sorta di neutralità lessicale alla condizione di straniero in Italia, includendo tutte le nazionalità nel frattempo arrivate in Italia. L'Italia si popola delle etnie più varie e in maniera pressoché omogenea. Queste si distribuiscono lungo lo stivale in maniera piuttosto uniforme, concentrandosi nei centri manifatturieri. Nasce una seconda, e in alcuni casi terza, generazione di immigrati-italiani, ma iniziano a nascere anche formazioni politiche, specialmente al nord, dichiaratamente xenofobe.
Il tema dell'immigrazione attraversa tutti gli anni 90 e viene rappresentato dai media in tutte le sue forme, tanto positive quanto negative; la raccolta dei pomodori al sud, lo spaccio nelle grandi città, le rapine in villa nel nordest, le moschee nei garage e via discorrendo. Gli stranieri diventano un tema stabile del dibattito politico ed il punto sull'immigrazione diventa dirimente nel programma di tutti i partiti. L'Italia scopre di essere diventato un paese di immigrazione e si accorge di non avere una legge adeguata in materia. Tra applausi e fischi nasce la Bossi-Fini. Lo straniero diventa “clandestino” nella vulgata comune, ma il termine “extra-comunitario” permane. Lo scontro ideologico, residuo della guerra fredda mentale che tarda a svanire, diventa lessicale. A destra si usa il primo termine, a sinistra il secondo, ma anche “immigrato”o , ancora timidamente, “profugo”.
Gli anni 2000 sono quelli del terrorismo spietato ed assassino, del jihadista armato di AK47 che spara tra la folla o si fa esplodere. I media hanno fatto ampio ricorso a questa immagine e così anche qualche governo, radicalizzandola e fissandola Lo straniero di fede islamica viene ora identificato spregiativamente come “terrorista”, o anche solo come “talebano”. Bulgaria, Croazia, Slovenia e Romania entrano nell'UE, i loro cittadini hanno libero accesso in Italia e il loro numero aumenta. Per molti, e per i media in primis , diventano gli “Slavi” o i “Rom”, andando a completare un vocabolario sempre più ampio di termini con cui poter definire la propria relazione con un altro di un etnia o cultura differente.
La morte di Gheddafi e la conseguente dissoluzione della Libia prima e la guerra in Siria poi, hanno dato il via alla stagione dei “migranti”. Questo periodo ha visto il fiorire di nuovi termini, nuove immagini mentali da associare allo straniero; “rifugiato”, “profugo”, “migrante economico”, ”richiedente asilo”.
Ognuno di questi termini è nato grazie ai media, e da questi è stato fortemente veicolato. Ciò ha disegnato negli anni gli scenari dell'immaginario collettivo sul tema dell'immigrazione e degli immigrati in particolare. Oggi pare si voglia porre un freno a questo proliferare di immagini mentali create dalle parole, utilizzando tecniche di Programmazione Neuro Linguistica che sfiorano la demonizzazione e la censura. Una sorta di reset lessicale, che faccia svanire d'incanto ogni accezione negativa, discriminatoria, allusiva, stigmatizzante da un termine universale per definire un “altro non italiano/europeo”. La distinzione bianco/nero è fumo negli occhi ed anche riduttiva. Anche l'identificazione con l'etnia, molto utilizzata dai media nei casi di cronaca, è tacciata di “razzismo”. Se volessimo poi aprire una parentesi sullo stesso termine “razzismo”, non potremmo non partire dal chiederci se lo stiamo utilizzando in maniera corretta o non sia invece diventato, anch'esso, un termine onnicomprensivo, una facile etichetta con cui identificare tutto ciò che non si dovrebbe fare o dire nei confronti dell'altro. Ad un certo punto della riflessione dovremmo, inderogabilmente, scontrarci con i limiti da imporre a questo termine e qui sorgerebbero problemi di ogni natura. Non dobbiamo dimenticare di possedere un “etnocentrismo” innato che è radicato nel profondo di tutti noi e che ci rende familiare e interpretabile l'ambiente in cui viviamo. Detto in parole povere, un tedesco pensa primariamente come un tedesco, un italiano come un italiano ed entrambi si vedono come europei nei confronti di un americano. Per ognuno di essi gli altri sono stranieri, agiscono, pensano, mangiano e vivono in un modo differente, ma sono tutti occidentali di fronte ad un giapponese. In ognuna di queste nazioni, vige una cultura prevalente che è frutto dei secoli e che ha lasciato dietro di sé diverse “interpretazioni del mondo” e di chi, storicamente, non era membro della propria comunità. La nostra, ad esempio, si porta dietro una stratificazione storica, sociale, culturale, etnica e linguistica di tre millenni. Anche nei paesi più giovani come i liberali, ed etnicamente variegati, Stati Uniti, l'uso di epiteti negativi per riferirsi agli stranieri è molto diffuso. Gli stessi neri americani si offendono tra di loro chiamandosi “Nigga”, negro, come il termine dato loro all'epoca delle piantagioni e dello schiavismo.
E' quindi realmente possibile eliminare del tutto una caratterizzazione di qualsiasi natura da un termine per indicare l'altro? Lo stesso termine “straniero” non è sufficiente? E' esso stesso un termine da cancellare? Ogni nazione è dotata di leggi che definiscono chi ne è cittadino, sulla scorta dell'esperienza storica, dei confini politici, della cultura. Queste leggi , però, quasi mai definiscono come debbano essere chiamati quelli che non sono cittadini di quella nazione. Dobbiamo venire a patti con il fatto che la diversità esiste e va indicata in qualche modo, e che questo modo è influenzato da una cultura sottostante che non è possibile trascurare. L'elemento identitario si manifesta in ogni organizzazione sociale e stabilisce, de facto, un dentro e un fuori, un “noi” e un “loro”. Un termine per definire chi quel noi non identifica, nasce spontaneo. Dobbiamo evitare gli eccessi verbali, violenti e discriminatori per definire l'altro, ma non possiamo svuotare le parole del loro significato. Non possiamo identificare un mondo vario e sfumato come il nostro con alcune semplici paroline neutre e con ambiti semantici sterminati. Deve essere permesso un limite massimo ed uno minimo oltre il quale ricadere nell'accusa di “imprecisione lessicale e semiologica nei confronti di un individuo altro”. L'etichettatura sembra, come detto, un po' la cifra del momento. Semplifica, velocizza, minimizza il numero di parole ed amplifica l'ambito di riferimento. A livello verbale rappresenta ciò che è un emoticon su un cellulare. Ce l'abbiamo una faccina per indicare uno straniero “politicamente corretto?




lunedì 1 gennaio 2018

Gerusalemme, Patrimonio di Tutti Noi.


Con la sua decisione del 6 dicembre del 2017, Donald Trump ha lanciato un enorme masso nello stagno fin troppo calmo del dibattito internazionale sulla questione israelo-palestinese.
Dopo gli annunci di almeno tre presidenti, Clinton, Bush jr e Obama, Trump è infatti passato all'azione dichiarando che gli USA sposteranno la loro ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme.
Questa decisione ha aperto il vaso di Pandora che contiene tutte le forze regionali, e mondiali, interessate alle sorti della città delle "religioni del Libro".

Il punto infatti è focale negli equilibri geopolitici della regione, e di riflesso, del mondo, poichè la città è contemporaneamente sacra per le tre maggiori religioni monoteistiche, è contesa (e divisa) tra Israele e l'Autorità Nazionale Palestinese (ANP), ognuna delle quali la vuole come propria capitale, ed è oggetto di forte interesse da parte delle maggiori potenze regionali: Arabia Saudita, Turchia ed Egitto (sunnite) ed Iran (sciita). A livello mondiale, sono interessate alle sorti della città anche l'Europa (nella sua accezione più ampia, quella religioso-culturale), la Russia e ovviamente gli USA.
Ripercorrere l'intera storia della contesa, a partire dal 1948, anno della fondazione d'Israele non è qui possibile, ma possiamo almeno delineare alcune delle conseguenze che una decisione come questa può generare.

Prima è però necessario ricordare che il 21 dicembre, due settimane dopo la decisione di Trump, l'assemblea delle Nazioni Unite ha votato massicciamente (128 voti a favore, 35 astenuti e 9 contrari ) una risoluzione dell'Egitto che chiedeva di rifiutare la decisione presa dal Presidente Americano1. Sicuramente Trump e la sua amministrazione erano preparati ad un esito simile, cionondimeno è stato uno schiaffo in pieno volto agli USA da parte di quella "comunità internazionale" che molte volte si è accodata a ratificare le decisioni già prese da Washington.
L'ambasciatrice all'ONU, Nicky Haley, ha tuonato contro i "traditori" minacciando rappresaglie economiche, ma questa volta è diverso. Accettare e condividere quella decisione, provvedendo a propria volta spostando la propria ambasciata, è una decisione che nessuna Nazione può prendere a cuor leggero e senza timore di riflessi negativi.

Lo status di Gerusalemme è ad oggi ancora conteso e, sebbene Israele dal 1967 abbia il controllo, di fatto, della città e in essa siano situati i palazzi governativi, questa è ancora divisa in un settore Est, a maggioranza palestinese e uno Ovest, quasi totalmente abitato da israeliani. Nonostante Israele la ritenga la propria capitale, tutte le ambasciate internazionali sono situate a Tel Aviv , o nei suoi dintorni, poichè sulla proclamazione di Gerusalemme capitale d'Israele pesano le risoluzioni emesse dall'ONU a seguito della "guerra dei sei giorni" del 1967 e ancora prima, con la risoluzione 181 del 1947 (Gerusalemme come entità separata e amministrata dall'ONU). Questa situazione è ben identificata dal fatto che, sulle mappe ufficiali dell'ONU, nè Tel Aviv nè Gerusalemme siano indicate come città sede di governo, il che rende Israele forse l'unico paese al mondo senza una capitale riconosciuta2.
Aggiungiamo anche che questo paese non si è ancora dato una costituzione scritta (particolare condiviso con la sola Gran Bretagna), per una serie piuttosto importante di motivi:
innanzitutto poichè i confini dello Stato non sono definiti nè tanto meno riconosciuti internazionalmente da tutte le Nazioni, in secondo luogo poichè quasi metà del territorio che Israele reclama come suo, è in realtà occupato militarmente, in terzo luogo poichè è lo status stesso di "cittadino israeliano" ad essere di difficile definizione poichè dovrebbe ricomprendere anche le centinaia di migliaia di palestinesi (cristiani e musulmani) che abitano all'interno dei confini da esso amministrati, ma questo confligge con l'intento di ogni governo israeliano di proclamare Israele uno stato "ebraico", ovvero culturalmente e religiosamente omogeneo.
Aggiungiamo, come detto, che Gerusalemme è la città in cui il Cristo è morto, è stato sepolto ed è resuscitato, la città dalla quale Maometto è salito al cielo, è la città dove risedeva il Grande Tempio ebraico (distrutto e ricostruito a più riprese durante i secoli), di cui il "muro del pianto" è una parte.
A causa di questo suo essere "Città Santa" per le principali religioni del bacino del mediterraneo, è alto l'interesse delle potenze dell'area. l'Arabia Saudita, già custode della Mecca e di Medina, città natale di Maometto, la Turchia, protrettrice per quasi mezzo secolo della città e dell'intera Palestina, l'Iran, il più grande paese sciita del medioriente e l'Egitto, il più grande paese sunnita non possono permettere che quella città cada completamente in mani ebraiche senza suscitare malcontento all'interno della propria cittadinanza. Basti pensare alle proteste di piazza avvenute a migliaia di chilometri di distanza, a Jakarta, in Indonesia, il più popoloso paese islamico dell'Asia, per farsi un'idea del livello di interesse sul tema da parte delle popolazioni musulmane.

Ognuna di queste potenze ha inoltre tessuto una serie di alleanze con gruppi e partiti politici sia in Palestina, come Hamas e la stessa Al Fatah ( il partito a cui fa capo Abu Mazen, presidente dell'ANP), che nel vicino Libano, come Hezbollah, per reciproco interesse e per mantenere ed accrescere il proprio peso in Palestina e attorno ad essa.

Posso comprendere che sembri tutto molto confuso sinora, ma in realtà lo è molto di più.

Gerusalemme è la chiave di volta di un'architettura molto complessa che ha alcuni risvolti palesi ed altri molto sofisticati e difficili da riconoscere nell'immediato.
Bisogna infatti analizzare la situazione mediorientale sotto tutti i diversi aspetti che la caratterizzano, religioso, culturale, militare, economico, politico e non è detto che quello che , tra questi, sembri essere un mezzo, non sia in realtà un fine e viceversa.

Se il punto focale della guerra del 1967 era l'inaccettabile presenza dello stato di Israele in Palestina da parte dei suoi vicini, Siria, Giordania ed Egitto in primis, oggi è la presunta "minaccia iraniana" a far da catalizzatore alle alleanze tra potenze nell'area mediorientale. La questione di Gerusalemme e della Palestina in generale, è un tema che i diversi governi iraniani, a partire dalla rivoluzione islamica del 1979, hanno sempre mantenuto vivo ed è un punto indiscutibile della politica estera persiana. Per l'Iran , infatti, dipingersi come difensore dei luoghi santi dell'Islam che non siano già sotto l'egida di altri paesi come l'Arabia, è un potente mezzo di fascinazione per le masse islamiche mediorientali. In questi anni, i contatti tra l'Iran ed Hamas (partito opposto ad Al Fatah e che governa Gaza), sebbene divisi da una diversa interpretazione dell'Islam (sciiti i primi, sunniti i secondi) sono stati più volte messi in luce come veri o presunti, ma anche l'Egitto (sunnita anch'esso) ha da diverso tempo iniziato a guardare con favore al governo di Tehran. Gli scambi economici iraniani con la Turchia sono al massimo storico ( 5 mld $ di interscambio nel 2016) e così le relazioni diplomatiche, mentre sono al minimo storico quelle di Ankara con Tel Aviv , a causa dell'abbordaggio della nave "Mavi Marmara" del 2010, e di altri duri scontri tra Erdogan e il governo israeliano, accusato di essere addirittura tra i mandanti del mancato colpo di stato in Turchia del 2015.

L'Iran ha storicamente un forte legame con la Siria (entrambe condividono la fede sciita), che lo ha portato al coinvolgimento diretto, sebbene parzialmente coperto, nelle operazioni militari in quel paese a fianco dei russi. Assieme a questi due grandi attori, in Siria, è stato determinante l'apporto militare e di intelligence fornito da Hezbollah, il "partito di Dio" , di fede sciita, che in Libano è parte integrante della compagine di governo e pilastro della difficile stabilità interna di quel paese.
Come si vede, Israele, ritiene di avere un pressante "problema iraniano" e questo lo ha portato ad una serie di mosse internazionali tra le quali la più eclatante è l'avvicinamento all'Arabia Saudita, ritenuto storicamente improponibile sino a qualche anno fa. La casa di Saud condivide con Tel Aviv il timore dell'espansionismo persiano nella regione e ha denunciato più volte il pericolo di una "mezzaluna sciita" che parte da Tehran, passa dal Qatar, attraversa l'Iraq del sud e la Siria e termina in Libano.

Questo scenario è propedeutico al controllo politico su quei territori che potrebbero essere interessati al passaggio dei metanodotti in partenza dall'Iran per sboccare sul mediterraneo ed infine in Europa, ponendo un grande problema alle esportazioni petrolifere saudite e rendendo economicamente fortissimo lo stato iraniano. L'idea che questa forza si materializzi, terrorizza Israele, e il continuo susseguirsi di governi di destra e ultradestra in quel paese ne sono un chiaro segnale. Negli ultimi dieci anni sono state fatte importanti scoperte di giacimenti off-shore di gas anche al largo delle coste di Gaza, Libano e Cipro, con alcune propaggini anche in acque territoriali israeliane3. E' quindi ovvio che anche Israele voglia entrare nel ricco mercato del gas dei prossimi decenni e che una forte presenza iraniana sia un deciso impedimento a farlo.

L'Iran ha 70 milioni di abitanti, possiede le seconde riserve al mondo di gas naturale,ha probabilmente il terzo esercito dell'area (dopo appunto Israele e Turchia) ed una forte influenza culturale e linguistica in tutta l'asia centrale sino ai confini di Russia ed India. Il suo programma nucleare, sebbene implementato secondo i dettami del Trattato di Non Proliferazione Nucleare (NPT) , sotto l'occhio vigile delle Nazioni Unite e approvato tanto dagli USA che dall'Europa, spaventa i governi israeliani poichè, in potenza, può permettere a quella Nazione di dotarsi di un deterrente nucleare militare e poter quindi resistere alle pressioni internazionali.
Se vogliamo, la questione nucleare della Nord Korea, con la quale l'Iran ha un fitto interscambio militare e commerciale (potremmo riduttivamente definirlo "Oil for Missiles"), ha evidenziato come il possesso dell'arma nucleare permetta a stati ritenuti "canaglia" dagli USA, di fornirsi di una "garanzia sulla vita". Gli esempi di Iraq, Siria e Libia, che negli anni 70-80 hanno tentato di costruire armi atomiche, senza riuscirvi anche a causa dell'intervento americano e israeliano, rappresentano di contro un triste promemoria di quanto può avvenire a voler contrastare gli Stati Uniti, e il loro sistema, senza possedere almeno una minima deterrenza nucleare (la Siria per anni ha ripiegato sulle armi chimiche, salvo rendersi conto della loro inutilizzabilità senza scatenare la riprovazione internazionale).

L'ANP, guidata da Abu Mazen si trova forse nella posizione più difficile, messa in difficoltà dalla fermezza di Hamas nel rifiutare lo scenario proposto da Trump e dalla probabile mancanza di appoggio da parte saudita (con i suoi ingenti capitali). Il fatto che le sollevazioni di piazza in Palestina siano state limitate, anche se rese tragiche dalla reazione israeliana, può segnalare la parziale tenuta del governo di Al-Fatah in Cisgiordania, ma il lancio di razzi dalla striscia di Gaza indica che c'è ancora spazio per un'escalation se e quando la decisione di Trump diverrà effettiva.

Gli Stati Uniti, sino ad oggi ritenuti mediatori nella questione israelo-palestinese, con la decisione di Trump, perdono eticamente questo status, avendo propeso per la parte israeliana e non sarebbe affatto strano se, a questo punto, alcune parti in causa si rivolgessero alla Russia per aiutarle a dirimere la situazione a loro favore. D'altronde in molti paesi arabi l'intervento russo in Siria è stato visto come un elemento di stabilità opposto al piano di spartizione della regione da parte delle forze occidentali. Inoltre la Russia ha già un peso nella politica interna israeliana, sebbene solo di natura etnico-culturale, essendo uno dei partiti al governo (quello guidato da Avigdor Lieberman) voce proprio di quel quasi 4% di cittadini ebrei ora in Israele ed espatriati dalla Russia negli ultimi 70 anni.

Queste sono alcune delle probabili conseguenze del gesto del Presidente americano, anche se ciò non dovesse portare nei fatti all'effettivo spostamento dell'ambasciata da Tel Aviv.

Siamo partiti da Gerusalemme e siamo finiti a Tehran, a Damasco, a Istanbul, a Ryad, Mosca e Washington. Possibile?
Non solo, è imprescindibile. Anche se solo vagamente, abbiamo esplorato l'aspetto economico e militare dei rapporti tra le potenze in campo ma nessuno di essi è il vero obiettivo della disputa.
Il conflitto, al suo livello più alto è culturale e in primis religioso.
I luoghi santi del Cristianesimo e dell'Islam sono tutti situati nella città vecchia, ovvero a Gerusalemme Est, ed infatti lo Stato del Vaticano ha specifici accordi bilaterali con l'ANP per la conservazione di quei luoghi ed è da sempre per una soluzione di condivisione della città da parte dei due popoli. I rapporti con lo Stato di Israele, per quanto concerne la tutela sull'eredità cristiana, sono invece più problematici e potrebbero peggiorare a seguito di un controllo giuridico riconosciuto sull'intera città da parte degli israeliani.

Per il mondo musulmano è invece la Cupola della Roccia, la Moschea di Omar, ad essere al centro delle proprie preoccupazioni poichè, essa sorge proprio al di sopra della roccia, appunto, dalla quale Maometto è, secondo il Corano, è salito al cielo chiamato da Allah. Quella stessa roccia è però la stessa sulla quale si presume che Abramo abbia offerto Isacco in sacrificio a Dio e l'intero complesso è stato costruito nel settimo secolo sopre le rovine del grande tempio ebraico, nel luogo in cui già sorgeva quello eretto dal Re Salomone.
Il timore dei musulmani è che gli studiosi di religione ebraica possano scavare al disotto della Moschea proprio per ritrovare le tracce del tempio con possibili rischi di stabilità della struttura.
A dire il vero quest ultimo è un aspetto secondario e forse strumentale, poichè il vero punto è la millenaria attesa dei fedeli ebraici per riveder costruito il tempio e con esso il dispiegarsi delle profezie bibliche sul ritorno di Dio e la sua imposizione di Israele "a capo delle Nazioni della Terra".

Potrebbe sembrare complottismo o parte della trama di un film di fantapolitica ma non lo è.
In quanto europei, siamo stati portati a pensare la religione sia un fatto personale, la cui manifestazione non debba influire sulla "laicità" della società così da garantire a tutti di professare la propria fede ( o ateismo, in caso contrario) liberamente. Questo modo di interpretare il ruolo della religione nella società è però proprio frutto della dottrina cristiana sul continente europeo, una dottrina che sin dal suo fondatore, il Cristo, ha fatto della separazione tra Chiesa e Stato, tra immanente e trascendente, un suo principio basilare, così come l'altro principio politicamente molto importante, quello del libero arbitrio.

"Date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio" è scritto nel Nuovo Testamento, e ciò, insieme alla possibilità di scegliere se credere o meno a un essere superiore, ha permesso nei secoli alla dottrina politica di percorrere un sentiero autonomo rispetto alla speculazione religiosa. Per i motivi opposti, nel mondo musulmano questa autonomia non è stata possibile e religione e politica hanno attraversato questi dodici secoli di Storia a braccetto sino ad oggi, con l'apparire sulla scena dell'ISIS, una sorta di nuovo califfato in cui la religione è politica e tramite essa detta le sue dure norme alla società.
Nell'Islam politico si riflette la stessa sottomissione dovuta all'Islam religioso (Islam in arabo significa appunto sottomissione) e la prova di questo legame stringente è riscontrabile in Arabia Saudita, in Iran, in Marocco e lo sta diventando progressivamente anche in Turchia.

In Israele la società è nominalmente laica ma le minoranze ortodosse come Haredim, Lubavitcher e Chassidim provenienti dall'est Europa hanno un peso rilevante. Tanto per farsi un'idea, in questi giorni in Israele i temi dominanti sono le polemiche per le immagini senza donne di famiglie ultraortodosse Haredi , e la loro richiesta di chiudere i supermercati nei quartieri in cui sono maggioranza durante il sabato, lo Shabbat ebraico, che sta creando qualche problema al governo Nethanyau4.

Il peso degli ultraortodossi sta crescendo politicamente e ciò ha orientato le azioni dei governi israeliani degli ultimi quindici anni. Se consideriamo i forti legami che queste denominazioni religiose hanno con le comunità in America (Negli Stati Uniti vivono circa 7 milioni di persone professanti la religione ebraica), la centralità che la religiosità americana (specialmente quella protestante evangelica) assegna all'Antico Testamento e all'interesse al mantenimento di una "testa di ponte" filo-occidentale e democratica in medioriente, capiamo bene come la mossa di Trump rappresenti la perdita di un ruolo di terzietà non solo nella questione israelo-palestinese e mediorientale in generale, ma anche in quella, più sfumata e sottile dell'appartenenza religiosa.

La scelta di Trump dichiarare, per gli USA, Gerusalemme "Capitale Eterna degli Ebrei" risponde quindi alla necessità di accontentare contemporaneamente la base ultrareligiosa in USA, e le frange più influenti e radicali dell'ebraismo ortodosso, che hanno pesato molto nella sua elezione ma non è una scelta politica di breve respiro o meramente elettoralistica. E' un cambio di paradigma rispetto alla cautela Obamiana (che le èlite israeliane hanno interpretato come ostilità) o la diplomazia Clintoniana (distrutta poi dalle mosse spregiudicate di Sharon).
E' una decisa scelta di campo che orienterà la politica americana nei confronti di Israele per i decenni a venire e probabilmente impedirà un ritorno alle trattative di pace per molto tempo, sebbene il Presidente a mericano affermi che sia un ulteriore passo verso la fine definitiva delle ostilità. Sulla ripartizione dei benefici di una pace raggiunta con un negoziato a somma zero (ovvero: uno vince e l'altro perde) permangono forti dubbi; un passo di questa portata può portare alla rottura di una certa cautela (certo , molto vaga) dei governi israeliani a spingersi ancora più in là e rivendicare con ancora più forza i territori occupati come parte integrante e legittima del proprio Stato, e le prime avvisaglie sono già sui nostri quotidiani5.
Gerusalemme, da secoli città al centro di scontri, di guerre, di speranze e di attese.
Contesa e divisa, bramata e desiderata, libera e occupata.
Gerusalemme, città celeste, Gerusalemme città di tutti noi.
Tutti.





NOTE:

2 http://www.un.org/Depts/Cartographic/map/profile/israel.pdf

3https://www.reuters.com/article/us-israel-natgas-leviathan/leviathan-gas-field-developers-approve-3-75-billion-investment-idUSKBN1620OS

4https://www.ynetnews.com/home/0,7340,L-3083,00.html


5http://www.lastampa.it/2018/01/01/esteri/il-partito-di-netanyahu-chiede-lannessione-degli-insediamenti-israeliani-in-cisgiordania-s2JgT3sWYgiaxibNnWQS3O/pagina.html