Qual è il termine più corretto per
definire chi è altro da noi, chi è straniero per nazionalità,
etnia, religione e cultura, in tempi di “politicamente corretto”?
La definizione di straniero alla quale
mi riferisco, non include i popoli dell'Europa occidentale, poiché
da decenni non pongono sfide alla società italiana, ma solo quelli
dell'area extra-europea, che progressivamente hanno permeato la
società italiana.
Sul tema di come trattare l'alterità
rispetto alle persone appartenenti ad altre etnie, culture e
religioni, forse non tutti siamo consci di quanto le nostre coscienze
in questi decenni siano state influenzate dai “maestri del
discorso”, per dirla con un'espressione molto in voga.
I termini che utilizziamo per definire
oggetti e concetti astratti, influenzano essi stessi il nostro modo
di pensare, in una sorta di retroazione che può essere negativa o
positiva. Questa diviene positiva se permette , conoscendo più
termini, di articolare un pensiero complesso e definire in maniera
più precisa l'oggetto di una discussione o di una dimostrazione.
Diviene invece negativa quando la ripetizione continua di determinati
termini, modi di dire, stereotipi e slogan, impedisce la ricerca
della sfumatura e prende il posto di intere categorie di
pensiero,scalzando le altre e relegandole nell'oblio.
Parlando di immigrazione, e soprattutto
di immigrati, è sorto il problema di come definire lessicalmente,
univocamente, tutti i “tipi di straniero” presenti in Italia.
Ciò è avvenuto attraverso una
articolata, ma continua, riscrittura dei codici lessicali, semantici
e, di riflesso, sociali. I media sono stati il principale veicolo di
questo cambiamento, e la popolazione ha assunto a volte il ruolo di
precursore ed altre quello di assimilatore passivo.
Facciamo una brevissima cronistoria dei
termini utilizzati in questi ultimi 50 anni.
Negli anni 60 l'immigrazione era
l'ultima delle preoccupazioni dell'Italia del boom. Gli stranieri
erano pochi e concentrati in piccole comunità coese, come nel caso
di etiopi e somali a Roma o tunisini in Sicilia. Non esisteva un
termine comune per indicarli se non appunto “straniero”.
Diversamente, venivano indicati per nazionalità.
Negli anni 70, poi, l'epiteto con cui
venivano tacciati gli stranieri, non europei, divenne “marocchino”.
In quel periodo l'immigrazione straniera era un fenomeno molto
controllato. La comunità più ampia era quella nordafricana,
maghrebina in particolare, ma nelle città la sua visibilità era
limitata. La distribuzione era concentrata particolarmente nei grandi
centri del nord, nella capitale e al sud. L'immagine più
rappresentata al tempo era quella del venditore di tappeti e
carabattole, ai mercati o in strada, ai semafori.
Negli anni 80 l'immigrazione
nordafricana aumenta costantemente, e gradualmente vi si aggiunge
quella subsahariana, specialmente al sud, attirata e sfruttata dal
lavoro agricolo.
Il nome che viene dato agli stranieri
diviene “vuccumprà” , tormentone ripetuto all'eccesso e ispirato
ai venditori ambulanti, senegalesi o marocchini, sulle spiagge
italiane.
Negli anni 90 è l'ora
dell'immigrazione dall'est Europa, Albania ed ex Jugoslavia in
primis, ma anche Russia e Polonia. Abbiamo ancora negli occhi le navi
cariche dei profughi in arrivo dalla costa albanese, e i profughi
bosniaci in fuga, e la loro successiva redistribuzione nelle città
italiane. Il termine usato per indicare uno straniero diviene ora
“extra-comunitario”. L'ingresso dell'Italia nell'Europa ha
imposto una sorta di neutralità lessicale alla condizione di
straniero in Italia, includendo tutte le nazionalità nel frattempo
arrivate in Italia. L'Italia si popola delle etnie più varie e in
maniera pressoché omogenea. Queste si distribuiscono lungo lo
stivale in maniera piuttosto uniforme, concentrandosi nei centri
manifatturieri. Nasce una seconda, e in alcuni casi terza,
generazione di immigrati-italiani, ma iniziano a nascere anche
formazioni politiche, specialmente al nord, dichiaratamente xenofobe.
Il tema dell'immigrazione attraversa
tutti gli anni 90 e viene rappresentato dai media in tutte le sue
forme, tanto positive quanto negative; la raccolta dei pomodori al
sud, lo spaccio nelle grandi città, le rapine in villa nel nordest,
le moschee nei garage e via discorrendo. Gli stranieri diventano un
tema stabile del dibattito politico ed il punto sull'immigrazione
diventa dirimente nel programma di tutti i partiti. L'Italia scopre
di essere diventato un paese di immigrazione e si accorge di non
avere una legge adeguata in materia. Tra applausi e fischi nasce la
Bossi-Fini. Lo straniero diventa “clandestino” nella vulgata
comune, ma il termine “extra-comunitario” permane. Lo scontro
ideologico, residuo della guerra fredda mentale che tarda a svanire,
diventa lessicale. A destra si usa il primo termine, a sinistra il
secondo, ma anche “immigrato”o , ancora timidamente, “profugo”.
Gli anni 2000 sono quelli del
terrorismo spietato ed assassino, del jihadista armato di AK47 che
spara tra la folla o si fa esplodere. I media hanno fatto ampio
ricorso a questa immagine e così anche qualche governo,
radicalizzandola e fissandola Lo straniero di fede islamica viene ora
identificato spregiativamente come “terrorista”, o anche solo
come “talebano”. Bulgaria, Croazia, Slovenia e Romania entrano
nell'UE, i loro cittadini hanno libero accesso in Italia e il loro
numero aumenta. Per molti, e per i media in primis , diventano gli
“Slavi” o i “Rom”, andando a completare un vocabolario sempre
più ampio di termini con cui poter definire la propria relazione con
un altro di un etnia o cultura differente.
La morte di Gheddafi e la conseguente
dissoluzione della Libia prima e la guerra in Siria poi, hanno dato
il via alla stagione dei “migranti”. Questo periodo ha visto il
fiorire di nuovi termini, nuove immagini mentali da associare allo
straniero; “rifugiato”, “profugo”, “migrante economico”,
”richiedente asilo”.
Ognuno di questi termini è nato grazie
ai media, e da questi è stato fortemente veicolato. Ciò ha
disegnato negli anni gli scenari dell'immaginario collettivo sul tema
dell'immigrazione e degli immigrati in particolare. Oggi pare si
voglia porre un freno a questo proliferare di immagini mentali create
dalle parole, utilizzando tecniche di Programmazione Neuro
Linguistica che sfiorano la demonizzazione e la censura. Una sorta di
reset lessicale, che faccia svanire d'incanto ogni accezione
negativa, discriminatoria, allusiva, stigmatizzante da un termine
universale per definire un “altro non italiano/europeo”. La
distinzione bianco/nero è fumo negli occhi ed anche riduttiva.
Anche l'identificazione con l'etnia, molto utilizzata dai media nei
casi di cronaca, è tacciata di “razzismo”. Se volessimo poi
aprire una parentesi sullo stesso termine “razzismo”, non
potremmo non partire dal chiederci se lo stiamo utilizzando in
maniera corretta o non sia invece diventato, anch'esso, un termine
onnicomprensivo, una facile etichetta con cui identificare tutto ciò
che non si dovrebbe fare o dire nei confronti dell'altro. Ad un certo
punto della riflessione dovremmo, inderogabilmente, scontrarci con i
limiti da imporre a questo termine e qui sorgerebbero problemi di
ogni natura. Non dobbiamo dimenticare di possedere un “etnocentrismo”
innato che è radicato nel profondo di tutti noi e che ci rende
familiare e interpretabile l'ambiente in cui viviamo. Detto in parole
povere, un tedesco pensa primariamente come un tedesco, un italiano
come un italiano ed entrambi si vedono come europei nei confronti di
un americano. Per ognuno di essi gli altri sono stranieri, agiscono,
pensano, mangiano e vivono in un modo differente, ma sono tutti
occidentali di fronte ad un giapponese. In ognuna di queste nazioni,
vige una cultura prevalente che è frutto dei secoli e che ha
lasciato dietro di sé diverse “interpretazioni del mondo” e di
chi, storicamente, non era membro della propria comunità. La nostra,
ad esempio, si porta dietro una stratificazione storica, sociale,
culturale, etnica e linguistica di tre millenni. Anche nei paesi più
giovani come i liberali, ed etnicamente variegati, Stati Uniti, l'uso
di epiteti negativi per riferirsi agli stranieri è molto diffuso.
Gli stessi neri americani si offendono tra di loro chiamandosi
“Nigga”, negro, come il termine dato loro all'epoca delle
piantagioni e dello schiavismo.
E' quindi realmente possibile eliminare
del tutto una caratterizzazione di qualsiasi natura da un termine per
indicare l'altro? Lo stesso termine “straniero” non è
sufficiente? E' esso stesso un termine da cancellare? Ogni nazione è
dotata di leggi che definiscono chi ne è cittadino, sulla scorta
dell'esperienza storica, dei confini politici, della cultura. Queste
leggi , però, quasi mai definiscono come debbano essere chiamati
quelli che non sono cittadini di quella nazione. Dobbiamo venire a
patti con il fatto che la diversità esiste e va indicata in qualche
modo, e che questo modo è influenzato da una cultura sottostante che
non è possibile trascurare. L'elemento identitario si manifesta in
ogni organizzazione sociale e stabilisce, de facto, un dentro e un
fuori, un “noi” e un “loro”. Un termine per definire chi quel
noi non identifica, nasce spontaneo. Dobbiamo evitare gli eccessi
verbali, violenti e discriminatori per definire l'altro, ma non
possiamo svuotare le parole del loro significato. Non possiamo
identificare un mondo vario e sfumato come il nostro con alcune
semplici paroline neutre e con ambiti semantici sterminati. Deve
essere permesso un limite massimo ed uno minimo oltre il quale
ricadere nell'accusa di “imprecisione lessicale e semiologica nei
confronti di un individuo altro”. L'etichettatura sembra, come
detto, un po' la cifra del momento. Semplifica, velocizza, minimizza
il numero di parole ed amplifica l'ambito di riferimento. A livello
verbale rappresenta ciò che è un emoticon su un cellulare. Ce
l'abbiamo una faccina per indicare uno straniero “politicamente
corretto?